“Eccomi!”
La solenne liturgia che stiamo celebrando ruota tutta attorno a questa parola. È la parola pronunziata dal Verbo eterno quando entra nel mondo per assumere la nostra carne mortale e redimere l’umanità; è la parola sgorgata dal cuore e dalle labbra della Vergine Maria quando ha accolto nel suo grembo il Figlio di Dio; è la parola con cui hai detto il tuo sì alla chiamata di Dio, caro Padre Giustino, nel momento in cui ti veniva chiesto di assumere la responsabilità abbaziale in questa comunità monastica di Noci. All’origine dell’eccomi di Gesù, di Maria e di Padre Giustino c’è la volontà di Dio, che si manifesta in forme diverse, come bene si evince dai testi biblici e dallo stesso rito di benedizione a cui stiamo partecipando.
Per ben due volte l’autore della Lettera agli Ebrei pone sulle labbra di Cristo, nel momento in cui si incarna nella nostra umanità, le parole del Salmo 39: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà», parole che lo stesso Gesù aveva sicuramente presenti quando, nel rivelare l’anelito più profondo del suo cuore, dichiara: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Non si può capire l’evento dell’Incarnazione che oggi stiamo celebrando se non nella logica dell’obbedienza al Padre, che vuole la salvezza dell’umanità (cf 2 Tm 2,4). Dio viene tra noi per ricreare quel che era stato distrutto dal peccato e far rifiorire la vita. È il nuovo Adamo che appare all’orizzonte della storia umana per dare inizio al nuovo giorno della salvezza. Ma come è diverso il nuovo Adamo, Cristo, rispetto al primo! L’Adamo del giardino dell’Eden si lascia sedurre dalla voce del nemico e disobbedisce a Dio, precipitando così nel baratro del peccato e della morte. Il nuovo Adamo invece professa incondizionatamente la sua obbedienza al Padre e la vive sino in fondo, fino al dono totale di sé: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). L’Incarnazione è in funzione della Redenzione e la Redenzione inizia nel momento stesso in cui il Verbo si fa carne ponendo la sua dimora tra gli uomini (cf Gv 1,14). Il Verbo eterno, assumendo il corpo mortale, inizia il suo gesto offertoriale, il più grande della storia, che avrà poi il suo epilogo sulla croce, quando si consumerà il sacrificio dell’Agnello che toglie il peccato del mondo (cf Gv 1,29). E il Sangue di questo Agnello, e non quello di tori e di capri, potrà eliminare i peccati (cf Eb 10,4)! L’Autore della Lettera agli Ebrei questo ha voluto dirci nel brano ascoltato e in questo disegno di misericordia per gli uomini si rivela la volontà di Dio, «mediante la quale siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre» (Eb 10,10). La solennità odierna, allora, nel cuore della Quaresima, ci fa già sentire il profumo della Pasqua e ci fa assaporare il frutto dell’opera di salvezza, la nostra santificazione.
L’eccomi di Gesù è lo sfondo su cui si innesta l’eccomi di Maria di Nazaret. Per assumere la nostra natura il Verbo eterno aveva bisogno di un grembo materno, doveva nascere da donna. L’Onnipotenza di Dio si mette all’opera e crea la donna nuova, Maria, l’Immacolata, redenta prima ancora che si compisse la Redenzione, la terra vergine da cui doveva nascere il vero albero della vita. L’evangelista Luca ci ha fatto entrare quasi in punta di piedi nell’umile casa di Nazaret, dove vive la Vergine Maria, e ci ha permesso di assistere, ammirati, al momento in cui il Verbo di Dio entra nella storia. Dio bussa alla porta di questa creatura, chiedendole di poter entrare nella sua vita. Pur avendola fatta Immacolata, e quindi totalmente impregnata della sua santità, ha voluto che il progetto che l’avrebbe vista protagonista fosse da lei accolto nella libertà. Non ha voluto imporre nulla a Maria. Le ha chiesto semplicemente di aderire alla proposta che le veniva fatta e di fidarsi di Lui. La “piena di grazia” è chiamata a concepire un figlio e a darlo alla luce, chiamandolo Gesù. Non sarà un uomo a fecondarla, ma lo Spirito Santo, che scenderà su di lei, coprendola con la sua ombra. Maria deve solo fidarsi di Dio. Egli farà tutto. Per questo l’angelo Gabriele l’invita a “non temere”. E per rassicurarla ulteriormente Le dice che Ella ha trovato grazia presso Dio (cf Lc 1,30) e per questo Dio non l’abbandonerà!
«Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Maria dice il suo sì a Dio. Crede alla parola dell’angelo perché il suo cuore è educato all’ascolto della Parola di Dio. In quegli attimi di silenzio Maria ha saputo discernere e ha potuto intravedere in ciò che Le veniva detto dall’angelo il compimento dell’attesa messianica che accompagnava il cammino di Israele, popolo della promessa e dell’alleanza. «Così Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò madre di Gesù, e abbracciando con tutto l’animo, senza che alcun peccato la trattenesse, la volontà divina di salvezza, consacrò totalmente se stessa quale ancella del Signore alla persona e all’opera del Figlio suo, servendo al mistero della redenzione in dipendenza da lui e con lui, con la grazia di Dio onnipotente. Giustamente quindi i santi Padri ritengono che Maria non fu strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma che cooperò alla salvezza dell’uomo con libera fede e obbedienza» (LG 56).
L’eccomi pronunziato nella fede da Maria si intreccia con l’eccomi del Verbo di Dio. Si compie così l’Incarnazione del Figlio di Dio. San Leone Magno, scrivendo a San Flaviano, così descrive questo evento, che l’apostolo Paolo situa nella pienezza del tempo (cf Gal 4,4): Egli «assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato. Sublimò l’umanità ma non sminuì la divinità. Il suo annientamento rese visibile l’invisibile e mortale il creatore e il signore di tutte le cose. Ma il suo fu piuttosto un abbassarsi misericordioso verso la nostra miseria, che una perdita della sua potestà e del suo dominio». E Sant’Atanasio, da parte sua, volendone evidenziare il valore salvifico, si esprime con queste parole, che non possono non riempirci di gioia: egli “prese un corpo soggetto, come quello nostro, alla caducità e, nel suo immenso amore, lo offrì al Padre accettando la morte. Così annullò la legge della morte in tutti coloro che sarebbero morti in comunione con lui. Gli uomini furono resi da lui immortali e ricondotti dalla morte alla vita. Il corpo assunto, perché inabitato dal Verbo, divenne immortale e mediante la risurrezione, rimedio di immortalità per noi”.
L’eterno entra nella storia e l’uomo mortale viene innalzato a dignità incomparabile. Questo avviene perché «con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (GS 22). Cristo assume la nostra carne mortale per divinizzarla: «Meraviglioso scambio. Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci dona la sua divinità», così canta la Chiesa nella solennità di Maria, Madre di Dio. In un certo senso noi oggi noi celebriamo la divinizzazione dell’uomo, perché egli è chiamato a partecipare alla vita stessa di Dio, in quella relazione d’amore fondata sulla figliolanza divina: «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
Caro Padre Giustino, in questo contesto di gioiosa esultanza la Chiesa invoca su di te il dono dello Spirito, perché sostenuto dalla sua forza tu possa servire questa comunità monastica, che ti ha scelto come padre e guida, con instancabile generosità. Anche tu hai detto il tuo “eccomi”, consapevole che rispondevi ad una chiamata del Signore. La tua obbedienza avviene nella fede, perché ti fidi di Dio e sai che con Lui non c’è da temere. Anche per il servizio che ti viene affidato è assicurata la promessa fatta dal Signore ai suoi eletti: “io sarò con te” (cf Es, 3,12; Dt 31,23; Ger 15,20). Forte di questa certezza e attingendo dal tesoro inestimabile della tradizione monastica, che ha in San Benedetto un prezioso punto di riferimento, inizia ora il tuo delicato compito di custode della comunione fraterna in questa comunità. Questo ti chiederò tra poco consegnandoti l’anello, segno eloquente che ti richiamerà ogni giorno alla fedeltà verso i fratelli che il Signore e la Chiesa ti affidano. A questo riguardo mi piace richiamare quanto la Regola dice circa il governo abbaziale, da esercitarsi sempre con tenerezza e fermezza nello stesso tempo: «Colui che riceve l’ufficio abbaziale deve governare i discepoli con due forme di insegnamento: ossia mostri ciò che è buono e santo con le parole, ma molto più con le opere» (cap. II, 11-12); «non faccia in monastero preferenze di persone. Non ami l’uno più dell’altro, eccetto colui che si mostrerà migliore nella condotta e nell’obbedienza» (II, 16-17); «l’abate ami tutti nella stessa misura» (II, 22); «detesti i vizi, ma ami i fratelli. Nel correggere, proceda con prudenza, senza esagerare, temendo che a voler troppo raschiare la ruggine, il vaso vada in frantumi. Abbia sempre davanti agli occhi la propria fragilità e ricordi che non deve spezzare la canna già incrinata. Con questo non diciamo che egli deve lasciar crescere i vizi, ma che, nello stroncarli, deve usare prudenza e carità, adattandosi al temperamento di ciascuno. Miri ad essere amato piuttosto che temuto» (LXIV, 11-15).
Quanta saggezza in queste parole! C’è una competenza pedagogica e psicologica, oltre che spirituale, in questa descrizione che San Benedetto dà di colui che nel monastero – egli dice – fa le veci di Cristo (cf II, 2). Comprendiamo allora il perché nella preghiera di benedizione si chiede al Signore per l’eletto innanzitutto la santità della vita, perché solo così potrà imparare «la difficile arte di guidare i fratelli», facendosi vicino a ciascuno di essi, – nella diversità dei caratteri, dice il testo – di modo che «il suo insegnamento possa penetrare dolcemente nel cuore dei discepoli come fermento della divina giustizia». E la santità di vita, dalla stessa preghiera, è così evocata: «incessantemente stimoli se stesso e inciti i fratelli a vivere per la tua gloria nel servizio della Chiesa». Vivere per la gloria di Dio: questa è la vocazione di ogni credente, questa, in particolare, è la vocazione di ogni consacrato. Tutto ciò che diciamo o facciamo, parole ed opere, tutto deve essere per la gloria di Dio. Non ci deve essere altro fine! Perché questo si realizzi nella vita del monaco, San Benedetto offre nel capitolo IV della Regola una dettagliata descrizione della “vita nuova ispirata al Vangelo” (cf Rito di benedizione, Domande all’Eletto) attraverso un florilegio di testi scritturistici, che permette di crescere nella perfezione evangelica ed «essere a lode della sua gloria» (Ef 1,12). È quel che dovrai fare tu, caro Padre Giustino, ed è quello che dovranno fare questi fratelli, che ti sono affidati, sostenuti dal tuo esempio.
Il Signore ti trapianta ora in questa nostra terra di Puglia. Vieni in un luogo benedetto da Dio e risorto da quasi 90 anni grazie alla generosità di una donna con una fede genuina e profonda, Laura Lenti, e al coraggio pioneristico di un manipolo di monaci che, lasciato il Monastero di San Giovanni a Parma, si erano messi in cammino per far rifiorire tra queste colline della Murgia barese un antico ceppo benedettino.
Per il nostro territorio e per le comunità ecclesiali dell’intera regione il Monastero della Scala è un prezioso punto di riferimento. Qui si viene per respirare la presenza di Dio, qui si viene spinti dal desiderio di cercare il volto di Dio, qui si viene per gustare la bellezza della preghiera, soprattutto liturgica, qui si viene per trovare la misericordia di Dio. È un cuore che pulsa, questa Abazia. È un luogo accogliente, dove si sperimenta la fraternità, dove tutte le volte che si ritorna ci si sente a casa, dove si tocca con mano che sono vere le parole del salmo 133: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme»! Ti inserisci nel solco di un cammino ben avviato e radicato sull’esperienza spirituale di monaci che si sono consumati per far crescere il Monastero, mettendo al suo servizio la propria fede e la propria cultura, la laboriosità e l’entusiasmo, la genialità e il coraggio. Davvero sono state scritte tra queste mura pagine di eroismo e di santità!
Vieni con la ricchezza della tua umanità e con il bagaglio di una vita monastica matura e gioiosa. Sono certo che anche con te il Monastero continuerà a fiorire, per essere sempre più per tutti noi faro luminoso che testimonia il primato di Dio nella vita dell’uomo. Abbiamo bisogno, venendo in questo luogo, di assaporare la bellezza del silenzio, che si fa ascolto di Dio e apre all’adorazione, alla lode e rende il cuore capace di ricevere la misericordia. Vogliamo imparare in questa “scuola del servizio divino” a non anteporre nulla all’amore di Cristo, ma a lasciarci afferrare dalla forza di questo amore per essere testimoni, nell’oggi della storia, del Dio che si è fatto carne per renderci partecipi della sua vita divina (cf 2 Pt 1,4).
A Maria, a Colei da cui è sceso tra noi il Salvatore, la vergine del silenzio e dell’ascolto, della docilità alla voce dello Spirito e della prontezza nel servizio, affido te e questa cara comunità monastica. E lei, Scala del cielo, aiuti tutti noi a salire tra le braccia di Dio per essere da lui custoditi e per sentire il fuoco del suo amore, che mai viene meno. Amen.