Carissimi fratelli e sorelle,
con il cuore colmo di apprensione per le condizioni di salute del Santo Padre Francesco, riceviamo dal Signore il tempo della Quaresima come dono per prepararci con gioia, purificati nello spirito, alla celebrazione della Pasqua (cfr. Prefazio di Quaresima/1). A Papa Francesco vogliamo far giungere l’attestazione del nostro filiale affetto, che diventa preghiera perché il Signore lo sostenga in questo tempo di prova.
La Quaresima è per tutti noi il momento favorevole per la nostra riconciliazione con Dio, è il giorno della salvezza in cui Dio viene a rinnovarci con il suo perdono (cf 2Cor 5,20-6,2).
A nessuno sfugge come il contesto dell’Anno giubilare fa acquisire una coloritura tutta particolare a questo tempo forte del ciclo liturgico: la chiamata ad essere “pellegrini di speranza” risuona come invito a metterci in cammino, lasciando alle nostre spalle tutte quelle false sicurezze, più legate alla logica del mondo, che rendono più lenti i nostri passi di annunciatori e testimoni della gioia del Vangelo. Sì, il Giubileo deve essere per il popolo di Dio di oggi un tempo di ripartenza, così come lo era per Israele, alla luce di quanto la tradizione biblica ci trasmette (cf Lev 25,8-17.23-43). Il senso profondo di questa singolare istituzione ci pone infatti dinanzi all’istanza ideale di un ritorno alla condizione di piena libertà, tanto per la terra quanto per i membri del popolo, affrancati da ogni forma di schiavitù e di sfruttamento.
Rinnovati interiormente dalla misericordia del Signore, camminiamo insieme nella speranza per approdare ai tanti luoghi di sofferenza, di solitudine, di disperazione per portare ovunque e a tutti luce e consolazione. Non dimentichiamo come in questo anno Papa Francesco ci ha invitati ad essere segni di speranza per quei fratelli che vivono momenti di fragilità e di disagio, soprattutto per le “persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità” (Spes non confundit, 1). Nell’omelia del 24 dicembre scorso, in occasione dell’apertura della Porta Santa in San Pietro, ha ribadito questo mandato: “A noi, tutti, il dono e l’impegno di portare speranza là dove è stata perduta: dove la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza. Portare speranza lì, seminare speranza lì”.
Da queste parole, capiamo come la speranza non è da intendere solo come un percorso verso il futuro in Dio, ma è percorso che già nell’oggi si caratterizza per segni concreti che anticipano e ci fanno pregustare il compimento finale. Esistono luoghi, anche davvero tanto fragili e nascosti, che dischiudono un potenziale di speranza.
Fra i tanti “luoghi” evocati dalla sollecitudine pastorale del Santo Padre ci sono le carceri. Al n. 10 della Bolla di indizione dell’Anno Santo 2025 il Papa annota: “Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Queste parole del Santo Padre mi hanno fatto pensare ai diversi momenti vissuti nell’Istituto penitenziario presente nella nostra diocesi, quello di Turi. Sono stati momenti forti che hanno lasciato un segno indelebile nel mio cuore. Nello stesso tempo, penso anche ai fratelli e alle sorelle della nostra diocesi detenuti in altre carceri e che, a fine pena, rientreranno nel nostro territorio, con il loro carico di sofferenza e con uno stigma sociale che forse potrebbe impedire loro di ricominciare una nuova vita.
Le riflessioni che seguono partono da un sentimento forte di condivisione, di rispetto e di vicinanza anzitutto nei confronti delle vittime di reati e dei loro familiari: altrimenti quello che dirò rischierebbe di essere ammantato da una patina ipocrita di generico buonismo che non farebbe bene a nessuno. A chi ha sofferto e soffre per le scelte illegali e scellerate di coloro che giustamente vivono o hanno vissuto l’esperienza del carcere va la mia solidarietà e la mia vicinanza paterna.
Detto questo con chiarezza, con altrettanta chiarezza sento di dover affermare che non possiamo rimanere indifferenti dinanzi a storie di sofferenza che accompagnano la vita di questi nostri fratelli e sorelle che hanno sbagliato. È vero, hanno commesso reati e hanno lacerato con le loro scelte illegali il tessuto delle nostre comunità e meritano certamente la condanna della società civile, fondata sulla cultura della legalità. Però, pur tutelando la giustizia, che è virtù cardine della convivenza civile, non si possono non avviare processi di crescita che permettano loro di intraprendere percorsi di riscatto e di rinascita che diano la possibilità di una nuova vita. Come singoli credenti e come comunità cristiane dobbiamo investire in questi nuovi orizzonti di speranza da offrire a chi ha potuto sbagliare nella vita. Sì, per tutti ci deve essere la speranza di risorgere da qualsiasi situazione di morte!
Ecco il motivo per cui, rispondendo all’appello di Papa Francesco e nello spirito del Giubileo, desidero che nelle nostre comunità, nella Quaresima 2025, si presti particolare attenzione al mondo delle carceri perché cresca la nostra sensibilità verso le persone segnate dall’esperienza carceraria. Nella riflessione che segue, offro alle nostre comunità tre ambiti di azione pastorale che sintetizzo con tre verbi: prevenire, accompagnare e ricominciare.
Prevenire, ovvero formare le coscienze.
Prevenire significa partire dalle comunità in cui si svolge la vita delle persone: la famiglia, la società civile, la stessa comunità ecclesiale. È proprio la comunità lo spazio favorevole per camminare insieme, partendo dal rispetto delle regole, che favoriscono il bene comune. In diversi documenti dell’episcopato italiano si pone attenzione all’educazione alle legalità, non solo per il rispetto fine a se stesso delle leggi, ma anche – e direi soprattutto – per l’edificazione del bene comune. Da questo punto di vista tutti siamo chiamati a sentirci responsabili gli uni degli altri, con un’attenzione particolare alle nuove generazioni.
È preoccupante cogliere un dato che viene dai nostri sportelli dei Centri d’ascolto Caritas, dove si nota un numero crescente di richieste di “messe alla prova” per minorenni. È un dato che ci deve porre una domanda: quanto investiamo per educarci ed educare ad una società fraterna, dove il bene comune cresce nella misura in cui è tutelata la dignità e il rispetto di ogni persona?
Non si tratta, semplicemente, di promuovere le norme e le regole. È una cosa necessaria, ma non sufficiente. L’investimento per una comunità accogliente e fraterna si vive attraverso la promozione di ogni persona, senza lasciare indietro nessuno, anche attraverso il lavoro giustamente retribuito. Quanto sono importanti gli investimenti fatti sulla formazione professionale, sull’ascolto dei sogni di ciascuno, sul supporto nel realizzare ciò per cui ciascuno si sente portato. E quanto è importante promuovere il lavoro onesto e dignitoso, senza le diverse forme di illegalità, che vanno dal nero al grigio.
Quando nella società non si promuovono le persone e il giusto lavoro, si aprono le strade a “lavori” non legali, che… lavori non sono! Si rischia così di essere facile preda della criminalità organizzata, che garantisce a modo suo, soprattutto ai più giovani, un futuro allettante da un punto di vista economico, a discapito però di una realizzazione umana autentica. Capiamo allora quanto sia importante investire – sia da parte delle istituzioni che dei privati – per offrire possibilità di occupazione a tutti, con lavori dignitosi che permettano di realizzare le proprie potenzialità.
La prevenzione ci fa cogliere come davvero tutto è connesso: dall’educazione al lavoro, dalle competenze professionali alla garanzia dei diritti di ognuno. La prevenzione è tutelare per tutti una vita dignitosa, bella e onesta, facendo innamorare ogni persona di uno stile di vita pulito e luminoso. La prevenzione è formare le coscienze a discernere tra il bene e il male… scegliendo il Bene!
Accompagnare, ovvero far sentire il calore della prossimità.
Pur nascendo come punizione per un reato commesso, il carcere – e qualsiasi altra pena – può e deve avere una finalità di recupero. Accompagnare è il segno di questo cammino di rinascita. Non avrebbe senso far vivere le esperienze punitive solo nella logica della repressione. Il carcere deve piuttosto diventare una possibilità per rieducarsi e per guarire, ossia poter ritrovare se stessi e il gusto di relazioni autentiche e costruttive. È fondamentale che sia garantita la dignità di ciascuno attraverso uno spazio educativo che permette di ritrovare se stessi e poter vivere un cammino nuovo, coinvolgendo tutti coloro che a vario titolo operano in carcere, dai Dirigenti alla Polizia penitenziaria e ai volontari. A loro va tutta la nostra gratitudine per quanto fanno in mezzo a tante difficoltà e il nostro incoraggiamento a continuare a svolgere con generosa dedizione il loro impegno.
Nella Bolla di indizione del Giubileo, al n. 10, papa Francesco invita la comunità cristiana, specialmente i Pastori, a farsi interpreti delle istanze che possono venire dalle carceri, che spesso, a causa del sovraffollamento, si trovano in una situazione di degrado. È opportuno richiamare in questo contesto, come la dignità di ogni persona, anche di chi ha potuto infangare con le scelte di illegalità la propria vita, va sempre salvaguardata. La detenzione non può annullare tale dignità. Per questo bisogna assicurare luoghi idonei e condizioni di vita confacenti alla dignità di ogni persona, anche per il tempo della carcerazione. Per questo, nel contesto dell’Anno giubilare, mi permetto di far giungere a chi ha la responsabilità politica di intervenire per offrire spazi idonei di rinascita umana e sociale e di prestare attenzione alle giuste esigenze che vengono dal mondo carcerario.
Altro elemento fondamentale per accompagnare il recupero di chi ha commesso un reato è la promozione di una mentalità riparativa, vista come fondamento della giustizia riparativa. Essa non vuole sostituirsi alla giustizia retributiva, quella cioè che ad ogni reato assegna una punizione, ma le si affianca, partendo dalla consapevolezza che con le proprie scelte di illegalità si sono procurati danni non solo alla persona colpita ma anche all’intera comunità. Ecco allora la possibilità, nei casi previsti dalla legge, del coinvolgimento in lavori socialmente utili che permettono di recuperare relazioni con la comunità infrante dall’illegalità. Quanto è importante far cogliere che come si è ferita la comunità con le proprie scelte di vita così la si può far crescere riparando al male commesso con azioni atte a qualificare la vita sociale.
Accompagnare deve coniugarsi anche con la prossimità alle famiglie dei detenuti, che soffrono l’assenza del loro familiare, con il disagio che questa porta con sé. Si tratta di bisogni relazionali, affettivi ed economici che, come comunità credente, dobbiamo imparare ad ascoltare, accogliere e prendere in carico. Se riuscissimo a far giungere a queste famiglie anche solo il calore di un’amicizia che non emargina, già sarebbe tanto in una logica di accompagnamento che vuol far sentire le braccia della comunità cristiana aperte ad accogliere tutti.
Solo l’accompagnamento solerte e cordiale delle comunità cristiane e dei singoli credenti può essere lievito di vita nuova per coloro che hanno conosciuto la tragica realtà del male, e così… fiorisce la speranza.
Ricominciare, ovvero ridare speranza.
Le comunità cristiane sono chiamate ad essere facilitatrici nel ricominciare. È un vero e proprio dono, è una grazia che viene dall’alto.
Usciti dal carcere, diversi fratelli e sorelle rimessi in libertà si ritrovano a cadere nuovamente in reati. Purtroppo, è alta la recidiva a cadere nell’illegalità. Perché avviene? La motivazione è da trovare nelle tante difficoltà che un ex detenuto deve affrontare e spesso non riesce a superare. Pensiamo, infatti, alle difficoltà ad essere assunti per un lavoro o alle poche o inesistenti garanzie per prendere una casa in fitto. A volte, usciti dall’istituto di reclusione si ritrovano senza affetti o con relazioni familiari ed amicali da ricostruire.
Quanto bisogno c’è di ritornare, anche in queste situazioni, alle sorgenti pure della nostra fede. Il Dio nel quale crediamo è misericordia. Lui è sempre disponibile a donarci la grazia di ricominciare. Si fida di noi, ci rialza e ci rimette in piedi tutte le volte cadiamo nel peccato. Quanto diversi siamo noi! Tanti sono i freni che mettiamo attraverso i nostri stigmi e tante le etichette che imponiamo sulle persone. Facciamo fatica a chiamare per nome chi ha sbagliato. Ci è più facile dare delle definizioni come “ex detenuto”, che tendere la mano accogliente. Spesso le nostre definizioni delimitano la persona ad un errore o ad una esperienza negativa o alla pena che ha espiato.
Guardiamo allora a Cristo, volto del Padre misericordioso, per apprendere il suo stile che non cancella il passato, ma offre la grazia di ricominciare. Qui c’è il cuore della speranza. Essa, infatti, non guarda al passato perché non ha senso sperare in ciò che è già accaduto, ma guarda al presente e al futuro, spingendo ad una vita nuova e dignitosa. È dono del Signore che non ci schiaccia in ciò che è il nostro errore, ma dona forza per riprendere il cammino.
Da diversi anni alcune nostre parrocchie mettono a disposizione persone, spazi e tempi per accogliere fratelli e sorelle che hanno sbagliato e vivono la “messa alla prova” con lavori socialmente utili. È un servizio prezioso che una comunità cristiana può donare, un servizio da incentivare non solo con la crescita delle disponibilità, ma soprattutto con la cura delle relazioni con questi fratelli. Una relazione umana, fraterna, non solo funzionale al lavoro da compiere. Discreta e disinteressata, è segno di speranza per chi ha sbagliato e per tutta la comunità che scopre così che è sempre possibile ricominciare. Nessuno può essere escluso dalla possibilità di rinascere ad un futuro ricco di speranza.
È importante promuovere una vera e propria cultura del ricominciare, dove la comunità cristiana è chiamata ad annunciare la speranza di percorsi nuovi nel mondo del lavoro, nelle famiglie, nella società. È una cultura controcorrente, ma soprattutto è Vangelo, “buona notizia” che rinnova ogni persona e le stesse relazioni. Con i nostri pensieri, con le nostre parole e con i nostri gesti possiamo essere profezia di speranza per chi ha sbagliato e per tutta la società, che deve essere capace di accogliere, senza mettere freni nel ricominciare. È necessario che pensieri, parole e gesti abbiano il sapore del Vangelo.
La seconda possibilità… per tutti!
Nel tempo quaresimale, guidati dalla Parola di Dio, lasciamoci forgiare dallo Spirito Santo per essere un popolo che vive del perdono del Padre e che accoglie la sete di perdono che giunge da ogni persona. Abbiamo tutti bisogno di crescere in una pienezza di fede che ci abilita ogni giorno a fare spazio a Dio e ai fratelli. Educhiamoci a non alzare muri con chi ha sbagliato ma a cercare il dialogo con tutti. I nostri occhi con stupore imparino a guardare tutti con tenerezza e a considerarli come un dono da accogliere, custodire e far crescere. Nessuno si senta emarginato nelle nostre comunità. Chiedo ai sacerdoti e ai diaconi, che vivono il loro ministero nelle nostre comunità, di creare occasioni per incontrare persone che faticano ad accostarci perché si sentono esclusi e forse giudicati per scelte di vita del passato. Noi pastori per primi abbiamo il compito di ridare fiducia, accogliendo ed accompagnando chi porta sulla propria pelle le ferite della vita. Tutti possiamo sbagliare e tutti dobbiamo avere la possibilità di ricominciare! La Quaresima è tempo propizio per dare un volto nuovo alle nostre comunità per renderle case aperte dove si vive l’amore vero.
La tradizionale colletta della Quaresima di carità quest’anno ho voluto che fosse finalizzata alla realizzazione di gesti concreti di prossimità ai detenuti con iniziative di solidarietà. Essa andrà a sostenere quello che la comunità diocesana, tramite la Caritas, vuole mettere in atto come segno di speranza per questi fratelli e sorelle. In particolare, si realizzeranno alcuni laboratori sulla legalità e sulla genitorialità presso il carcere di Turi e si offrirà il sostegno economico ad alcune famiglie di detenuti in difficoltà. Nello stesso tempo, si avvierà uno sportello di ascolto delle vittime dei reati, perché anche costoro devono avere attenzione nelle nostre comunità, anzi loro per primi devono avvertire la carezza di una Chiesa che vive la sua maternità innanzitutto con chi sperimenta la sofferenza nella propria carne provocata da altri.
Quello che vorremo fare sono piccoli gesti che richiedono però una grande certezza: apparteniamo ad una comunità. Siamo un popolo che è chiamato a costruire una grande famiglia. Sì, il camminare come popolo ci fa gustare la speranza. La speranza di ognuno è in un popolo che percorre le strade della storia dove vivono uomini e donne che desiderano fortemente il pane dell’amore fraterno. Se così non fosse, la speranza si ridurrebbe ad un vuoto ottimismo che finirebbe per deludere. Invece, sentendoci in cammino tutti, confidando nella misericordia di Dio e nella compagnia dei fratelli e delle sorelle che incrociamo nel quotidiano, ognuno crescerà nella speranza.
Allora, carissimi fratelli e sorelle dell’amata Chiesa di Conversano-Monopoli, “Camminiamo insieme nella speranza!”, così come ci invita a fare il Santo Padre attraverso la proposta del messaggio di quest’anno per la Quaresima.
Buon cammino a tutti, mentre invoco per intercessione di Maria, Madre della santa Speranza, la benedizione del Signore sulle nostre comunità.